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Bullismo senza privacy

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Messaggio  Marco Ven Feb 26, 2010 12:57 am

Il fatto:
un bambino autistico viene seviziato nel 2006 in un istituto tecnico di Torino da alcuni compagni, il resto della classe non interviene e osserva con indifferenza come se fosse un fatto abituale. Il pestaggio viene filmato e messo su YouTube. E' visto 5.500 volte e poi rimosso in seguito a una segnalazione. YouTube è di proprietà di Google a cui viene imputata la violazione della privacy. Tre dirigenti di Google sono stati condannati a sei mesi dal tribunale di Milano per non aver impedito la pubblicazione del video. La condanna è avvenuta nonostante fosse stata ritirata la querela dai legali del ragazzo.
Le considerazioni:
Internet consente la pubblicazione di contenuti su diverse piattaforme. YouTube è una di queste, come Vimeo, Facebook, Flickr e molte altre. La responsabilità del contenuto è di chi pubblica, non del gestore della piattaforma. Se OGNI contenuto dovesse essere controllato dal punto di vista legale prima di essere messo on line, Internet dovrebbe chiudere i battenti.Poi è anche un precedente pericoloso,e la domanda sorge spontanea dicevano una volta:chi,in base a che cosa,nell'interesse di chi e perchè può decidere ciò che può essere pubblicato e ciò che non può?A chi spetta questo gravoso ed impopolare atto censorio,in un Paese dove il conflitto d'interessi e la corruzione è a livelli mostruosi?
Se viene scritto su un muro un insulto diffamatorio, non si può condannare il proprietario dello stabile per averlo permesso o non averlo cancellato immediatamente. Se si usa il telefono per diffondere notizie che dovrebbero essere protette dalla privacy non si denuncia la compagnia telefonica. Se nella curva di uno stadio viene srotolato uno striscione aberrante non si può condannare l'architetto che lo ha progettato.
Senza il video il bambino sarebbe ancora vittima dei suoi seviziatori, lo scandalo è scoppiato solo grazie alla visibilità data da YouTube. I colpevoli sono nell'ordine: gli insegnanti e il preside che non hanno vigilato, i compagni che lo picchiavano abitualmente, i compagni che assistevano senza muovere un dito, coloro che sapevano e non hanno sporto denuncia.
YouTube ha reso pubblico un reato. Qualcuno è stato punito per quel reato? Si è punito chi ha rivelato uno spaccato delle scuole italiane e del bullismo da quattro soldi con genitori assenti o complici del comportamento dei loro figli. I dirigenti di Google non solo sono innocenti, ma dovrebbero ricevere una medaglia. La sentenza è un monito: i disabili nelle scuole italiane si possono pestare, ma in incognito. E', come chiunque può capire, un problema di privacy.Sarebbe come condannare Gutenberg ,l'inventore della stampa, per la pubblicazione del Mein kampf.
Che ne pensate a proposito?

Marco

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Messaggio  Marco Ven Apr 16, 2010 11:51 pm

Non vanno spese più di quattro righe per le minacce che il giudice Magi, quello della sentenza Google, ha ricevuto via mail o su Facebook. Se uno è così idiota da minacciare un giudice – lo faccia attraverso il Web, il telefono, con una raccomandata cartacea o un piccione viaggiatore – va denunciato e ciao.

Molto più interessante è invece il merito giuridico e logico della sua intervista al Sole.


Da un lato il magistrato sostiene di aver redatto una sentenza favorevole alla libertà del web: suppongo si riferisca al fatto che non ha condannato i dirigenti Google per diffamazione, evitando così di stabilire il pauroso precedente secondo il quale una piattaforma è responsabile penalmente per i contenuti diffamatori uploadati dagli utenti. In effetti, è vero: poteva andare peggio (poteva piovere).

D’altro lato però Magi insiste nel ripetere un concetto già espresso nelle motivazioni: quello secondo cui il web «non è una zona franca» (nella sentenza aveva addirittura scritto «una sconfinata prateria dove tutto è permesso e niente può essere vietato»).

Qui c’è un pregiudizio ideologico grosso come un macigno, dettato forse dal terrore dell’uomo di legge di fronte a qualcosa di impalpabile e geograficamente sfuggente come il web.

Perché è del tutto ovvio che Internet non è un territorio franco, una suburra dove la malavita detta legge. Qui nessuno lo pensa e nessuno lo vuole: tanto meno chi in questo non-luogo ci passa molto tempo, ci lavora, si diverte e così via. Anzi: è proprio il bisogno di buone regole a richiedere che quando i giudici si interessano di web rispettino alcuni principi fondamentali validi nel resto del mondo, sia giurisprudenziali sia di buon senso. Ad esempio, il principio della responsabilità individuale e non collettiva (sennò si finisce come quel poveraccio di Granzotto che vuole “processare Internet”).

Venendo al processo specifico: Magi ha condannato Google solo ed esclusivamente perché secondo lui non aveva chiarito ed enfatizzato a sufficienza, nelle condizioni d’uso che vengono accettate dagli utenti con un clic, che chi carica un video non deve violare la privacy altrui. Ciò per Magi sarebbe aggravato dal fatto che Google si sarebbe comportata così per non disincentivare la gente ad uploadare, e quindi avere più video, e quindi fare più soldi.

Ecco: a me il ragionamento pare molto pretestuoso.

Sì, pretestuoso, cioè usato come un pretesto per stabilire quello che veramente sta a cuore al giudice, cioè far sapere che non ci sono zone franche, praterie senza legge eccetera. Perché quando uno si trova davanti al computer – così come davanti a ogni altro strumento di comunicazione – deve rispettare la legge e basta. Responsabilità individuale, appunto. Se io violo la privacy altrui scrivendo su una lavagna, non ce la si può prendere con il produttore di lavagne perché nelle istruzioni non mi ha ri-spiegato quello che già dovrei sapere, e cioè che non posso usarla per commettere reati. E se il produttore di lavagne non l’ha specificato perché vuole vendere più lavagne e farci lucro, chissenefrega: la responsabilità è sempre mia che ci scrivo, non sua che le produce.

Invece il giudice ha condannato Google: voleva che mettesse on line un modulo scritto bello grosso e in neretto per mettere in guardia l’utente, “occhio che se carichi un video non puoi violare la privacy”. Eppure al primo anno di giurisprudenza insegnano che l’ignoranza della legge non giustifica chi commette un reato: anche se nessuno ti ha avvisato, tu non lo devi compiere e basta.

Ecco, nella sentenza Google sono saltati almeno due principi base: la responsabilità personale e il fatto che se produci un bene legale non c’è alcun bisogno di ripetere ogni volta che non va usato per scopi illegali. Altrimenti i produttori di coltelli dovrebbero appiccicare su ogni confezione la scritta in corpo 36 che non vanno usati per sgozzare i vicini di casa.

Ma perché gli utenti del web dovrebbero essere più cretini degli acquirenti di coltelli? Perchè i primi devono essere avvisati e i secondi no?

E’ semplice: perché la paura che il web sfugga alla legge ha portato il magistrato a un comportamento ideologico, all’esigenza di far sapere in qualche modo al pianeta che la rete non è un porto franco eccetera.

E’ buffo: per anni ad essere accusati di comportarsi secondo dettami ideologici e assolutisti erano i guru della rete, gli idealizzatori di una piattaforma che è ovviamente piena di ambivalenze, come tutto nella vita. Adesso invece si vede nascere una nuova ideologia uguale e contraria, quella della sanzione insensata e finalizzata solo ad attutire la preoccupazione del dottor Magi – e di tanti altri – che internet non diventi il far west.

Ma è proprio con sentenze come questa – in cui viene disatteso il rispetto dei principi più semplici di diritto e di buon senso – che si allontana internet dal resto del mondo civile, e che quindi lo si fa diventare far west.

Marco

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