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Roberto Stracca

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Messaggio  STEFANO MALFATTI Mar Nov 16, 2010 5:47 am

Anche Roberto ci ha lasciati, il fato così ha deciso e nulla noi possiamo fare, a parte accettare con rabbia e costernazione questa brutta pagina della nostra vita.
Cos'altro c'è da dire? Crying or Very sad
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Messaggio  Simone Mar Nov 16, 2010 8:40 pm

questo 2010 è stato devastante.... Roberto non ho avuto il piacere di conoscerlo di persona ma ho avuto il piacere di apprezzarlo sulla fanzine del CUCS prima e sul Corriere della Sera poi.



Dopo Roma-Cagliari mi sono chiesto se ha ancora un senso andare allo stadio a vedere esibizioi penose di Balbo, Fonseca e co. che se ne fregano di noi tifosi. Ma ero comunque felice e ci ho messo un pò per capirne il perchè. Poi ho ripensato a quel pomeriggio di un giorno da cani e ho visto un gruppo di ragazzi che ha cantato nella speranza (illusione?) che qualche 'brocco' centrasse la rete. Quante volte è risuonata questa domanda: ma cos'è il Commando? Un circolo chiuso? Un'associazione a delinquere? Un'organizzazione finanziata dall'A.S.Roma? Niente di tutto ciò. Il Commando non si può spiegare, perchè il Commando non esiste. E' un'idea, un'astrazione, un sentimento. Nessuno ne è proprietario. Nessuno può fargli fare ciò che vuole, perchè non si può imporre nulla ad un moto d'animo, nessuno lo può distruggere, perchè non si uccide un ideale. Rido se ripenso ai nostri discorsi di sciogliere il gruppo perchè non si può mettere fine ad una passione. Finchè ci sarà solo un bambino che sventolerà una bandiera, ci sarà il Commando Ultrà. Siamo solo dei momentanei realizzatori di un'opera. Domani io me ne andrò e ne verranno 100 migliori di me. Verrà chi dirà 'io c'ero nel '77' e una risata lo seppellirà. Verrà chi dirà 'io sono il capo' e giù 20.000 pernacchie.
Chi può possedere un moto d'anima?
Finchè ragazzi avranno voglia di cantare e non guardare la partita, il Commando vivrà. Anche se domani ci saranno Dylan e Ambra (i figli di questi anni) che non sapranno nemmeno chi erano Vittorio e Stefano, anche se li accomunerà a loro un affetto e una spinta emotiva.
Il Commando non ha direttivi, regole, capi e vicecapi.
Il Commando non ha controlli, il Commando è una forza della natura.
E' un vento...e chi può fermare il vento?"

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Messaggio  STEFANO MALFATTI Mer Nov 17, 2010 9:07 pm

Oggi è il giorno dell'ultimo saluto a Roberto.
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Messaggio  fabian Dom Nov 21, 2010 3:24 am

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Messaggio  fabian Dom Nov 21, 2010 3:25 am

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Messaggio  STEFANO MALFATTI Lun Nov 22, 2010 6:59 am

Fabian che scrive qualcosa è davvero robetta per palati fini, fusse che fusse la vorta bona ... manca solo che si veda la foto!!!
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Messaggio  Marco Gio Nov 25, 2010 4:28 am

UN PENSIERO A ROBERTO STRACCA. non lo conscevo ma quest'articolo mi basta e mi avanza. vivere ultras,ieri oggi domani.

Articolo di roberto stracca su corriere della sera...da groppo in gola...leggete e meditate Tifo, violenza e orgoglio In curva, tra le ultime tribù Identificati come nemici, gli ultras sono anche una realtà aggregativa «Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace». Il vecchio ultras scuote la testa. Ne ha passate tante, ne ha viste troppe. Ha osservato la sua curva mutare volto, anticipare, spesso in negativo, i cambiamenti della società. Ha preso atto che la delinquenza entrava liberamente nel suo mondo e si accaparrava il business del merchandising mentre i suoi amici venivano diffidati per aver urlato «mercenario» a un giocatore svogliato. Ha conosciuto ragazzini raggirati e spinti a far propaganda politica dagli stessi che poi, indossato il doppiopetto ministeriale, al tg chiedevano leggi speciali contro di loro. Ha captato che la tensione stava salendo strategicamente e visto una generazione-cerniera di leader riconosciuti rasa al suolo per lasciare il territorio a «cani sciolti» senza regole. Eppure la curva aveva continuato a vivere, gli ultras a essere una realtà attiva in Italia. Ora, però, sente sulla pelle che si è a un punto di non ritorno. Che nulla sarà come prima. Nessuna bomba intelligente: per combattere la metastasi hanno deciso di spazzare via anche la parte sana. E così una storia con tante macchie (ma anche cose belle che un giorno dovranno essere raccontate) è, forse, vicina al capolinea. Perché il problema non è solo la contestatissima «tessera del tifoso» ma la volontà di omologare, di normalizzare, di rendere meno libera l’ultima forza antagonista della società italiana. Ha ragione lo scrittore Enrico Brizzi (in Jack Frusciante è uscito dal gruppo): «Gli ultras hanno rappresentato l’unica realtà aggregativa che è sopravvissuta negli ultimi 40 anni in Italia». Il partito è morto, l’oratorio non è che stia così bene, il movimento studentesco è ormai poco più di una barzelletta. L’antagonismo in Italia, anche per la necessità di pacificare le piazze dopo i sanguinosi anni Settanta, ha finito per confinarsi (o essere confinato) nelle curve degli stadi che per lungo tempo sono state vere e proprie zone franche, off limits alle forze dell’ordine, extraterritoriali. Per diventare oggi, in un contrappasso dantesco, un laboratorio di legislazione speciale. Sia chiaro: la curva non è un mondo perfetto. Tutt’altro. Fate l’elenco di tutti i mali contemporanei e ce li troverete. A cominciare, purtroppo, dalla droga. Dalle canne fricchettone degli anni Settanta alle pasticche sintetiche degli ultimi tempi: sono tutte passate dalla curva. Centro di affari diventato troppo grande perché la malavita ne potesse rimanere fuori. Ma, nonostante tutto, per migliaia e migliaia di ragazzi da Nord a Sud, l’iniziazione al mondo, la palestra di vita, l’apprendimento delle norme non scritte del mondo è stato su un muretto o su una balconata. Tra un fumogeno e un coro politicamente scorretto. Mandata in pensione la naja obbligatoria, adolescenti o post adolescenti hanno imparato la gerarchia e il rispetto dei più «vecchi» prendendo l’acqua su una gradinata o soffrendo fame e sete su un treno topaia. I soloni del calcio entertainment non si vogliono rendere conto che se gli stadi italiani non sono ancora più vuoti e deprimenti di come già appaiono non è per le loro cavolate d’iniziative promozionali. Tanti ragazzi e ragazze continuano ad andare in curva, dove la partita s’intravede più che vedersi, proprio grazie (e solo grazie) agli ultras, per voler stare insieme, per non rassegnarsi a vivere di solo Facebook, per un ideale distorto ma un ideale, per fedeltà alla tribù parafrasando il titolo del romanzo di John King. Cosa spinge un tifoso del Torino ad andare a vedere una squadra che colleziona figure penose da anni e schiera carneadi che rispondono al nome di Di Cesare e Iunco che magari a gennaio andranno via? L’orgoglio di far parte della Maratona, una delle curve che hanno fatto la storia del tifo italiano. Di sentirsi parte di un qualcosa di più grande e di provare a fermare il tempo, di tornare per 90’ a quando lo stadio era il rito collettivo della domenica. O, analogamente, che cosa porta, quando le tv satellitari offrono i dribbling di Messi o le finezze di Robben comodamente lì sul piccolo schermo, un tifoso della Ternana o del Verona a farsi ore e ore di viaggio per una partita di Prima divisione e per dei giocatori che a fine partita neppure li saluteranno? L’appartenenza al proprio gruppo. Non è che bisogna esserne felici, di ciò, ma prenderne atto sì: l’ultras ha saputo continuare ad aggregare in una società liquida e sempre più disgregata. Nonostante una pubblicistica che non li aiuta, nonostante siano stati dipinti come la feccia della società e nei talk show televisivi si trovino attenuanti non generiche anche ai serial killer ma non per chi, sbagliando, ha dato un pugno in uno stadio, c’è chi continua a essere ultras, a scegliere di essere ultras, a vantarsi di essere ultras. E non sono pochi. Stadio Italia. I conflitti del calcio moderno (curato da Silvano Cacciari e Lorenzo Giudici, edito da La Casa Usher), ottimo libro in materia, ha spiegato perfettamente come la società contemporanea ha necessità del conflitto e di un nemico. E di come questo, a un certo punto in Italia, sia stato individuato nell’ultras. E gli ultras italiani hanno avuto una colpa primaria: quella di essere usciti, metaforicamente, dallo stadio. Fin quando si sono picchiati per un rigore non dato o per uno striscione rubato, non è mai fregato niente a nessuno. Ma quando hanno cominciato a elaborare un loro pensiero, una mentalità (che non è di destra né di sinistra, anche se simbolicamente e retoricamente ha forti richiami con l’estrema destra), allora sì che hanno cominciato a dare fastidio. Quando hanno fatto gli striscioni per chiedere case per i non salariati, difendere gli operai messi in cassa integrazione, esaltare i pompieri che salvavano le vite dopo un terremoto, urlato contro la speculazione di chi vuole costruire gli stadi e chiesto giustizia per i bambini vittime di crimini efferati, hanno spaventato. Avevano i numeri (da far invidia a tanti leader politici, generali senza truppe), consenso (persone, non solo giovanissimi, disposti a seguirli) e ribalta (il sempre maggior numero di telecamere dentro gli stadi). E hanno firmato la loro condanna. Perché in una società omologata e assopita chi non pensa che la vita sia partecipare a un reality spaventa. Ecco, allora, la voglia se non di eliminare l’ultras, di assimilarlo. Una battaglia vinta perché dall’altra parte non c’è un movimento coeso. «I colori ci dividono, la mentalità ci unisce», ripetono gli ultras sui forum. Ma le divisioni, le rivalità, gli antagonismi non sopiti fra le curve (e all’interno delle stesse curve) li hanno resi più facilmente vulnerabili. E i loro autogol rischiano di sentenziarne la sconfitta. Come le molotov contro il ministro Maroni che hanno finito per colpire chi appoggiava pacificamente la contestazione alla tessera del tifoso per motivi ideologici. C’è, infatti, chi dice che lo stadio non sia che una prova. Che dopo i tornelli ai cancelli degli impianti sono arrivati quelli voluti nella pubblica amministrazione ideati dal ministro Brunetta. E che la «tessera dello studente» non sia altro che la tappa successiva della «tessera del tifoso». Certo è che gli stadi cambieranno: si avvicineranno a un circo o un cinema, dove si vede uno spettacolo e non ci si affeziona a luoghi e cose. Sicuramente a molti piacerà. A chi ha vissuto, amato, palpitato, sbagliato sugli spalti, no. «Se avessi 15 anni oggi - confessa il vecchio ultras - non so se entrerei e vivrei una curva come l’ho vissuta io». Ed è l’unica volta che guardando la sua carta d’identità non si arrabbia e si sente fortunato. Roberto Stracca 22 novembre 2010(ultima modifica: 23 novembre 2010) Roberto Stracca aveva 40 anni. Era un nostro collega e un amico. La sua scomparsa, martedì scorso, dopo quindici mesi di lotta con una grave malattia, ha lasciato un vuoto di quelli che, si sa, non verranno mai colmati. Cronista sportivo serio e scrupoloso, attento alle trasformazioni del mondo dei tifosi, Roberto amava lavorare e collaborare anche con la redazione Cultura. Con sensibilità ed entusiasmo, ci segnalava temi e argomenti che pensava potessero trovare spazio su queste pagine. Il suo ultimo articolo è stato questo. Doveva rivederlo, aggiungere alcuni dettagli, fare qualche correzione. Ma a noi che l’abbiamo riletto è sembrato bello e giusto metterlo in pagina oggi. È un’ultima occasione per salutarlo.

Marco

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Messaggio  Marco Sab Nov 27, 2010 3:58 am

articolo stupendo

Marco

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Messaggio  STEFANO MALFATTI Gio Gen 13, 2011 7:17 pm

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